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Rufino Frate Minore

Testimoni

† 14 novembre 1270

Figlio di Scipione d’Offreduccio, fratello di Favarone padre di Chiara d’Assisi, di cui era dunque cugino. Non si conosce la data esatta della sua nascita. Intorno al 1210, Rufino aderì alla nascente fraternitas assisana, quando Francesco fece ritorno dal viaggio a Roma, dove si era recato per chiedere (e la ottenne) l’approvazione orale della propria forma vitae e il permesso di predicare la penitenza. Fu da allora tra i compagni più vicini a frate Francesco: non solo o non tanto per la sua origine assisana, ma perché lo si trova sempre al suo fianco, dai primi passi della primitiva esperienza minoritica fino alla malattia e alla morte di Francesco. Lo confermano le agiografie francescane, che forniscono le più antiche e quasi uniche attestazioni biografiche sul suo conto. Per come egli viene descritto nello Speculum perfectionis al paragrafo 85, la caratteristica che lo contraddistingueva era «la virtuosa incessante orazione»: frate Rufino «pregava ininterrottamente e, anche dormendo e in qualsiasi occupazione, aveva lo spirito unito al Signore» (Fonti francescane, a cura di E. Caroli, 2011, n. 1782). Rufino fu certamente tra i compagni che assistettero Francesco nella malattia, che aveva prostrato il santo negli ultimi anni della sua vita, in particolar modo dopo l’episodio delle stimmate a La Verna, nel 1224. Frate Rufino è sepolto vicino alla tomba di Francesco nella cripta della basilica di Assisi.



Narra lo Iacobilli: «Berarduccio, figlio di Paolo di Bernardo di Paolo Scifi de Conti di Sassorosso, nobile Assisano, fu genitore del B. Ruffino, il quale fu cugino in terzo grado del B. Silvestro, sesto compagno di san Francesco, e nipote consobrino di santa Chiara d’Assisi.
Fu l’Anno 1210 dal P. s. Francesco ricevuto nell’Ordine; e fu uno delli più cari discepoli, ch’egli havesse: poiché venne a tanta perfettione di vita, che l’istesso Francesco diceva haver havuto in rivelatione da Dio, ch’era uno di tre maggior santi, che fussero al suo tempo nel Mondo; e l’Anima sua esser stata in Cielo canonizzata; e che non dubitava, ancorché fusse vivo, di chiamarlo santo» (L. Iacobilli, Vite, III, pp. 27-28); (cf. I Fioretti, cap. I).
Frate Rufino, infatti, tra i seguaci di Francesco, fu, insieme a Leone ed Angelo Tancredi, uno dei tre compagni per antonomasia del santo (furono tra l’altro gli autori della vita di s. Francesco, nota come Leggenda dei tre compagni).
Rufino appartenne alla stessa alta nobiltà di Chiara; ebbe quindi una formazione al di sopra della plebe.
Possedeva indubbiamente un’indole buona e pia; egli era retto, tenace e generoso. Per temperamento, tuttavia, era timido, impacciato nel parlare e introverso, e questo finì per renderlo talvolta ostinato. Forse a motivo di tutto ciò, la cosa che più gli piacque e che cercò maggiormente nella sua nuova vita, fu la preghiera e la solitaria contemplazione.
Questo suo aspetto è anche quello che viene messo in risalto da s. Francesco nella sua descrizione integrativa del vero frate minore: «La virtuosa incessante orazione di Rufino, che pregava anche dormendo e in qualunque occupazione aveva incessantemente lo spirito unito al Signore».
La sua Vita mette in evidenza, oltre a questo assorbimento contemplativo, «l’aspetto del suo amore infiammato e della sua purezza incontaminata, come liliale».
Nel fiore della giovinezza si lasciò prendere dall’attrattiva evangelica e radicale di Francesco, «vestì con grande devozione l’abito della povertà», e fu uno dei dodici che nel 1209-1210 si recarono a Roma per invocare e ottenere da Innocenzo III, l’approvazione della loro evangelica «Forma di vita».
Rufino era quello che era, ma riuscì a migliorare con la grazia del Signore e l’aiuto sapiente, fermo e affettuoso di Francesco. Questi gli riservò un singolare amore; basti pensare che nella sua fase di massima santità, quando il Signore lo sigillò con le piaghe della Passione, si lasciò curare dall’infermiere Rufino con maggiore assiduità.
Frate Rufino, inoltre, fu l’unico a vedere - e toccare! - la piaga del costato, dato che l’umile Francesco cercava ogni espediente pur di nascondere questa sua segreta grazia.
Un giorno in cui il poverello stimmatizzato era vestito del solo saio, frate Rufino gli propose, scherzosamente, di scambiarsi tra loro le tonache; l’ingenuo e affettuoso Francesco per quella volta acconsentì, e così, con questo stratagemma, frate Rufino arrivò a vedere in tutti i suoi particolari la ferita del costato.
In un’altra occasione osò anche di più: nel cambiargli le brache (i «panni di gamba») - che gli salivano fino al petto, e che più d’una volta aveva trovato macchiati di sangue -, mise rapidamente delle dita nella ferita insanguinata del costato, così che il santo non poté evitare un grido di dolore: «Dio ti perdoni, frate Rufino! Perché hai fatto questo?» (cf. Della quarta considerazione delle sacre e sante Istimate).
Col tempo la testimonianza di frate Rufino divenne una delle prove della veracità delle stimmate di s. Francesco.
La radicalità evangelica di Francesco, prima ricco e dedito alla bella vita, richiese, a quanti lo seguirono, una grande dose di autenticità umana e cristiana.
Non fece eccezione il nostro frate Rufino, o meglio, egli fu proprio un’eccezione nel senso che, oltre a tutte le rinunce e difficoltà degli altri, prese e seguì una decisione che era in contrasto col suo naturale modo di essere: risultava, in un certo senso, il meno adatto alla vita in fraternità; sottolinea, infatti sottolinea Cuthbert: «Quel gentiluomo di Assisi, timido, silenzioso, riservato, a volte incontentabile, sembrava il meno indicato per la lieta compagnia della Porziuncola. Ma sotto la sua riservatezza nascondeva una grande dolcezza e una sincerità assoluta. La sua timidezza era figlia del suo temperamento, estremamente sensibile. Forse Francesco, ammonito dalla complessità del proprio carattere, si rendeva conto, fino a sentirsene responsabile, della tortura e tristezza dovute all’estrema sensibilità del sistema nervoso di Rufino, ed era solito trattarlo con la più grande bontà. In San Francesco, all’abbattimento, seguiva una rapida reazione, il che non accadeva invece a frate Rufino».
Per toccare il colmo, Wadding dice che «era un po’ balbuziente».
E’ precisamente per questo temperamento difficile, per nulla perfetto, che frate Rufino interessa in modo particolare, come incoraggiamento e insegnamento per chiunque, a motivo del proprio temperamento, abbia e crei difficoltà in seno a una comunità religiosa, o nel contesto familiare, o in qualsiasi ambito dell’umana convivenza. Francesco volle aiutare questo frate a vincere se stesso con una prova che fu più di uno shock. Agostino Gemelli osserva che si trattava anche di punire con una salutare medicina radicale un residuo di orgoglio feudale che gli era rimasto.
Il fatto, narrato ne I Fioretti, cap. XXX, dovette accadere agli inizi dell’Ordine, quando Francesco e i suoi compagni agivano senza norme giuridiche, alla buona, quasi in modo inatteso.
Frate Rufino, infatti, notissimo nobile di Assisi, dovette sottoporsi alla umiliazione di girare la sua città, indossando semplicemente le brache, tra lo scherno dei suoi concittadini, che lo reputavano impazzito per l’eccessiva penitenza. Ma tolto dall’imbarazzo dallo stesso Francesco, con le sue parole (e con quelle del suo maestro) riuscì, predicando nella chiesa di S. Rufino, a intenerire, irreversibilmente, il cuore dei suoi concittadini.
Frate Rufino, attesta la sua Vita, a causa del proprio temperamento e delle malefiche tentazioni diaboliche, spesso dovette affrontare gravi crisi, come quella, ad esempio, di voler abbandonare l’Ordine e andarsene per la «via degli Anacoreti».
Il fatto, stando agli storici, ebbe per luogo la solitudine dell’eremo delle Carceri, sul monte Subasio. Il demonio fremeva, di fronte alla determinazione dei «penitenti di Assisi», i quali gli stavano rendendo difficile il suo lavoro in tutta la contrada. Egli, si travestì, quindi, in angelo di luce e insistette nel convincere i più duri, tra cui Rufino, ad abbandonare quella penitenza esasperante. Ma Rufino, ricorrendo al consiglio materno di Francesco, ebbe la vittoria sul demonio: «Quando il demonio ti dice: "Tu sei dannato!" E tu gli rispondi: "Apri la bocca, e mo’ vi ti caco". E questo ti sia il segnale appena che tu gli avrai dato questa risposta immantamente fuggirà"»! (cf. I Fioretti, cap. XXIX).
Grazie alla libertà evangelica della fraternità francescana - vittoriosa sulla sua tendenza alla vita anacoretica - gli venne anche la piena realizzazione della sua vocazione contemplativa.
Narra la sua Vita che «si diede in tal modo alla preghiera e fu così confermato da Dio nella sublimità della vita mistica, che per quanto dipendeva da lui sarebbe stato - e stava di fatto per molti giorni - senza muoversi da dentro un piccolo cerchio, contemplando Dio giorno e notte, se i frati non gli avessero interrotto quella contemplazione».
E questa era per lui pace, riposo supremo.
Fu questo il suo carisma: si è detto all’inizio che è sotto tale aspetto che il poverello lo poneva come modello per gli altri. Gli si può perciò applicare - come forse a nessun altro - quanto afferma Celano dello stesso s. Francesco: «non era tanto un uomo che prega, quanto piuttosto egli stesso tutto trasformato in preghiera vivente»; fino ad arrivare a quell’iperbole unanimemente riportata dai biografi primitivi e dallo stesso san Francesco: «che pregava anche dormendo».
La vera contemplazione - quella che è «rapimento ma non istupidimento», secondo l’arguta distinzione di s. Teresa - è anche un elevato indice di santità.
«Una volta, essendo santo Francesco con la detta famiglia (= con i frati con cui viveva) in uno luogo in ragionamento di Dio, e frate Rufino non essendo con loro in quello ragionamento, ma era nella selva in contemplazione, procedendo in quello ragionare di Dio, ecco frate Rufino esce della selva e passò alquanto di lungi a costoro. Allora santo Francesco, veggendolo, si rivolse alli compagni e domandolli dicendo: "Ditemi, quale credete voi che sia la più santa anima, la quale Iddio abbia nel mondo?".
E rispondendogli costoro, dissono che credeano che fusse la sua.
E santo Francesco disse loro: "Carissimi frati, io sono da me il più indegno e il più vile uomo che Iddio abbia in questo mondo; ma vedete voi quel frate Rufino il quale esce ora della selva? Iddio m’ha rivelato che l’anima sua è l’una delle tre più sante anime del mondo; e fermamente io vi dico che io non dubiterei di chiamarlo santo Rufino in vita sua, con ciò sia cosa che l’anima sua sia confermata in grazia e santificata e canonizzata in cielo dal nostro Signore Gesù Cristo".
E queste parole non diceva mai santo Francesco in presenza del detto frate Rufino» (I Fioretti, cap. XXXI).
La sua fine giunse per lui come qualcosa di beatificante.
Si trovavano gravemente malati alla Porziuncola tre dei nostri primi frati: Leone, Rufino e Bernardo.
Morto quest’ultimo, frate Leone, che sembrava il più grave, vide in sogno una lunga teoria di frati celestiali, che venivano in processione verso la Porziuncola. In mezzo a tutti gli altri ce n’era uno così splendido, che si restava abbagliati a guardarlo. Frate Leone domandò a uno del celeste corteo: "Chi siete e per che cosa venite?". "Veniamo a raccogliere l’anima di un frate, malato qui alla Porziuncola, che ben presto morirà".
"E chi è - seguitò a interrogare frate Leone - quello dagli occhi così splendenti?".
"Come? Non lo conosci? E’ frate Bernardo da Quintavalle, che guardava tutti con occhio buono, e nella sua umiltà pensava bene perfino dei cattivi, e quanto vedeva di bello nelle creature lo riferiva al loro Creatore".
Svanita nel sogno la visione, frate Leone la raccontò il giorno seguente a frate Rufino, concludendo tutto contento con questa convinzione: "Carissimo, spero di partire presto per il viaggio che mi condurrà a Dio".
Ma frate Rufino gli replicò, con la sicurezza di chi sa bene quello che dice: "Ti sbagli, fratello: è infatti la mia morte imminente e la mia salvezza che ti è stata rivelata".
E intrecciarono una deliziosa discussione, cui pose fine frate Rufino con questa dichiarazione: "Carissimo, tu l’hai visto in sogno, ma io ho visto e udito la stessa cosa mentr’ero ben sveglio. E in quel corteo celeste era presente anche il beato Francesco, il quale mi ha detto che venivano ormai a prendermi con loro. E nel dirmi questo, mi ha dato sulle labbra un bacio dolcissimo, che mi ha lasciato con la bocca esalante una meravigliosa fragranza. Accostati a me, e sentirai quel profumo delizioso".
E frate Leone, accostatoglisi, avvertì che la bocca di frate Rufino esalava tale e tanta fragranza da restarne inebriati di piacere; e gli credette.
Frate Rufino convocò allora tutti i frati, li esortò a conservare l’umiltà e l’amore reciproco, e con queste parole s’addormentò placidamente nel Signore. Le sue labbra rimasero sigillate per sempre dal «bacio dolcissimo» della pace francescana.
Era il 14 novembre del 1270, esattamente un anno prima della morte di frate Leone.
«Lo seppellirono con molto onore e grande concorso di popolo nella basilica di S. Francesco»: il quarto delle due coppie di compagni che là fanno da scorta al poverello di generazione in generazione.
Colui che era stato sul punto di abbandonarlo definitivamente, per aggrapparsi testardamente al proprio temperamento, è ora insignito del privilegio di vedere compiersi in sé la benedizione di Dio per gli amanti perfetti: «che nemmeno la morte li separi».


Fonte:
D. Elcid Celigueta, I primi compagni di San Francesco, E.M.P. 1995, pp. 156-166 - www.fratellofrancesco.org

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Aggiunto/modificato il 2021-09-08

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