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Giuseppe Rivella Laico

Testimoni

Casta­gnole Lanze, Asti, 15 agosto 1897 - 2 ottobre 1942


Era il 15 agosto 1897, so­lennità di Maria As­sunta, quando a Casta­gnole Lanze (Asti), nacque Giuseppe Rivella, figlio di agricoltori agiati. Fu festa grande per i suoi genitori; era un bel bambino che si dimo­strò presto vivace, simpatico, affettuoso.
La mamma gli fece conosce­re Gesù... e Giuseppe lo scel­se, come il compagno di strada per tutta la sua vita.
Una giovinezza limpida e la­boriosa accanto ai suoi genito­ri, tra la natia borgata Rivella e la parrocchia di San Pietro, dove ogni domenica l'amico Cristo l'attendeva per l'appun­tamento luminoso dell'Euca­ristia.
Nella primavera del 1916 — l'Italia era in guerra dal Gar­da all'Isonzo — Giuseppe, 19 anni, fu arruolato nel reggi­mento di cavalleria «Lucca» e mandato prima a Saluzzo (Cu­neo) poi in Albania, in Grecia, ed infine a Mantova.
Finalmente stabile, gli uffi­ciali dell'esercito, per i suoi modi distinti, lo chiamarono a fare il cameriere alla loro men­sa. Giuseppe aveva scoperto la sua « strada» per tutta la vita: sarebbe stato un cameriere di gran classe, raffinatissimo.
Congedato dalla guerra, aprì un « caffè» prima a Savo­na, poi a Imperia dove strinse , amicizia con i Padri Passioni-sti della città. Intanto impara­va le lingue straniere con estrema facilità. Dal 1925 al '28 si trasferì a San Remo: una vita brillante, sempre alla ribalta, in primo piano, ma la sua vita era tutta aperta all'ir­ruzione di Dio nella sua anima.
I primi trent'anni della sua vita sono limpidi e puri: cerca di realizzare i suoi sogni...

Un grande amore
Giuseppe era solo: aveva se­te d'amore, un cuore pieno di nostalgia. Sul suo orizzonte passarono alcuni volti limpidi di ragazze. Abbozzò un fidan­zamento con la signorina Jo­landa Favre, ma era insoddi­sfatto, cercava più in alto: il cuore aveva sete di infinito, ol­tre l'amore umano.
«Le ragazze mi rapivano, incantando il mio cuore, ma io guardavo più in là» — scrisse nel suo diario.
Genova, 5 febbraio 1929. Giuseppe, passando per la strada, si trovò ad avere tra le mani l'invito per una giornata di spiritualità mariana, in una chiesa del centro. Ci andò e fu un'illuminazione: scoprì che poteva consacrarsi tutto al Cri­sto, per le mani di Maria, nel­lo spirito della «vera devo­zione» di Luigi Grignon de Montfort.
E così, dopo essersi prepa­rato con impegno, Giuseppe Rivella diventò consacrato, «lo schiavo » come allora si di­ceva, di Maria. Aveva trovato l'amore che lui cercava: Gesù l'unico Amato e sua Madre.
La scoperta di Maria lo por­tò da una buona vita cristiana alla santità «eroica»; fece di lui, nel suo ambiente di lavo­ro, un altro-Gesù, un testimo­ne della fede che, per le strade del mondo, viveva i «consigli evangelici» con lo spirito di preghiera e di dedizione a Dio che i monaci vivono nei loro cenacoli.
Il «Trattato della vera devozione a Maria» del Montfort, diventò la sua guida per tutta la vita. Sotto la direzione di Maria, il suo cameriere si sa­rebbe fatto santo, continuan­do a lavorare negli alberghi, come un monaco nella sua cella.
Giuseppe Rivella, anche se qualche amico o compagno di lavoro lo giudicava uno «sce­mo», era felice di patire... e di vivere con quello stile di vita,lo stile di Maria che dona al mondo Gesù, che porta nel mondo Gesù.

Cristo ovunque
Cercato per la sua gentilez­za, prestò servizio nei più lus­suosi alberghi d'Italia: Hotel Excelsior di Venezia, i più grandi alberghi di Roma.
Tutte le mattine, prestissi­mo, partecipava alla Messa e si accostava alla Comunione. E poi all'albergo a lavorare. Parlava francese, inglese, spa­gnolo, ungherese, russo: una capacità di dialogare, la sua, con tutti.
Ed ogni giorno, con l'ardo­re di un innamorato, recitava sette volte la corona del rosario.
Nell'albergo lasciava ad ogni tavolino un'Ave Maria: per contare le «ave», gli ser­viva bene la fila dei tavolini. Con la sua delicatezza, riusci­va a conoscere le anime dei clienti degli alberghi e dei caf­fè, spesso in cerca di avventu­re galanti in cui ammazzare il tempo e l'anima.
Sulle orme di Maria, la Ma­dre dell'Amore, Giuseppe Ri-velia comprese che la grandezza della vita è soltanto l'Amore. Scriveva: «L'Amo­re. Amare, essere innamorati ed essere contraccambiati al cento per cento, ecco la felici­tà. Quell'Amore che non do­manda che di essere amato...
Il contraccambio al cento per cento del nostro amore si tro­va solo in Dio: la creatura che lo ha raggiunto, non cerca un'altra creatura, perché già possiede la gioia».
In questo amore totale, là tra le sale da biliardo e il tin­tinnio dei bicchieri, tra il suo­no dei concerti e il parlottare dei grossisti e le storie di peccato di tanti poveri esseri, Giu­seppe Rivella si faceva santo.

Povero tra i poveri
A notte alta, quando servi­va a Roma presso il Caffè Co­lonna, era atteso nella vicina piazza, da un gruppo di silen­ziosi dietro le colonne: i suoi poveri. Tanti.
Tutto il suo stipendio inte­ro era per loro. Cuore grande, era tutto per i poveri. Per po­ter dar loro di più, aveva la­sciato il suo piccolo apparta­mentino ed era andato a vive­re presso una portineria.
Ad un collega che non riu­sciva a comprarsi il cappotto per mancanza di denaro, un giorno d'inverno, Giuseppe re­galò il suo appena comprato. Un'altra volta derubato di una somma notevole, non volle de­nunciare alcuno: «Mi dispia­ce per l'anima dei ladri — disse — io li perdono».
C'erano in quegli anni tanti operai in cerca di lavoro a Ro­ma e che guadagnavano poco.
Giuseppe andava a cercarli nelle osterie più misere della città e condivideva con molti di loro, a sue spese, il pranzo, i vestiti, il denaro... Fu in uno di questi locali che incontrò il suo migliore amico, l'operaio Guido Papi.
Era diventato quasi l'incar­nazione della carità, per i più infelici. Nel suo cuore, sempre, la fiducia senza limiti, nel Dio che «sa che ci siamo». Lui stesso viveva in povertà estre­ma. Una valigia conteneva tut­to il suo corredo di cameriere di gran classe, perché — dice­va — « S. Francesco aveva me­no di me».

Testimone laico del Dio-Amore
Alla sua vita cristiana inten­sissima, Giuseppe Rivella ag­giungeva le mortificazioni di un eremita. Mangiava pochis­simo, portava continuamente le «catenelle» per ricordare a se stesso che era « schiavo » di Maria. Gli sarà tolta arruggi­nita, poco prima della morte. Durante la malattia l'aveva sempre portata ed era malato ai polmoni.
Nel cuore ardeva il suo amo­re a Cristo e a sua Madre, l'Immacolata. Lui si sentiva «il cameriere dell'Immacola­ta». Diceva: «Io non ho che un sogno, vivere per Gesù e per l'Immacolata. Maria è il mio amore, la mia passione, Maria è tutto per me».
«Perché stai nel mondo e non entri in convento? » — gli domandò un giorno, a brucia­pelo, un amico.
Gli rispose Giuseppe: «Ti dico che è bello vivere nel mondo per testimoniare il co­raggio della lotta... Perciò io sto nell'albergo come potrei stare in convento, perché è qui che Dio vuole che io svolga la mia opera di bene e poiché sen­to che Dio mi vuole qui, sento che in convento non sarei a posto».
E Giuseppe Rivella rimase là, libero apostolo del Signo­re, felice di amarlo e di procla­mare con la vita, la sua misericordia, là dove Egli spes­so è assente dal cuore degli uo­mini. Perché dove gli uomini sono più «abbandonati», lì dev'esserci il Cristo.
Un giorno non potè reggere alla fatica. Sospeso il suo lavo­ro, lo ricoverarono in ospeda­le. Lo mandarono a godere il riposo in un clima più salubre. Non servì a nulla.
2 ottobre 1942: il giorno del­la sua morte. Calmo, sereno, ricevette il suo Gesù: era il pri­mo venerdì del mese, sperava di morire di sabato, il giorno dedicato alla Madonna. Il vol­to pallidissimo ma non sciupa­to, appariva illuminato da una luce tersa di bontà, di chi ave­va dato tutto.
Con un filo di voce salutò il suo amico Guido: «Addio, va­do in Paradiso».
Poi reclinò il capo e morì sorridendo, mentre un picco­lo fiotto di sangue gli impor­porava le labbra e gli rigava lievemente la guancia sinistra, come un'ultima offerta d'amore.
Così era vissuto, così era morto Giuseppe Rivella, un «santo laico», dopo aver spe­so tutta la sua giovane vita co­me un'ostia offerta al Dio vivo e un dono d'amore ai fratelli. Qualche tempo prima, aveva detto alla sorella Ugolina: « Vedi, la santità è fatta di tanti granellini di sabbia... Quando io non ci sarò più, benedite Dio per quanto Egli fa. Ringraziate la Madonna e cantate il Magnificat per me».
Di lui disse l'irlandese Mons. Alberto Deane, Generale dei Passionisti a 38 anni, e poi, dal 1955 primo Vescovo di Villa Maria in Argentina:
«Il cavaliere dell'Immacolata, Giuseppe Rivella, con la sua vita angelica, ha testimoniato che la santità è possibile dappertutto, anche negli ambienti più difficili. E noi tutti siamo chiamati alla santità. La devozione alla Madonna è il segreto della riuscita: se Maria ti guida, tu arrivi alla meta».


Autore:
Paolo Risso

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Aggiunto/modificato il 2009-04-23

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