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Serva di Dio Aurelia Oreglia (Leletta) d'Isola Terziaria domenicana

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Torino, 1 aprile 1926 – Saint-Pierre, Aosta, 18 agosto 1993


L'infanzia
Scendeva la sera del giovedì santo, 1 aprile 1926. In una Torino appena sfiorata dalla primavera la gente rientrava a casa dalla visita alle sette chiese, come era la consuetudine di allora. In un signorile palazzo di via Giannone 7, poi distrutto dalla guerra, stava per venire al mondo una bimba intensamente desiderata dai suoi genitori: Aurelia Oreglia d'Isola che fu poi per tutti Leletta. Il padre era il barone Vittorio Oreglia d'Isola, la madre la contessa Caterina Malingri di Bagnolo, entrambi di antica nobiltà piemontese. Ancora stremata dal parto, la madre ebbe un gesto di fede profonda che segnò la vita della sua bambina: la sollevò sulle braccia e la offrì alla Madonna. Leletta lo seppe più tardi, ormai adulta, e lo racconta lei stessa: "Un giorno qualunque del mio 33° anno, mentre andavo e venivo nella camera di mia madre ammalata, e il suo sguardo mi seguiva con una carica particolarmente ironica e affettuosa, dal fondo del suo lettone essa mi disse: ‘Ti ha ben presa, però, la Madonna!’ Allora - solo allora - mia madre mi raccontò che alla mia nascita, ancora tutta coperta di pelli e di sangue, mi aveva offerta alla Madonna e - aggiunse negli ultimi giorni - la gioia era stata tale che per tutta la notte non aveva potuto dormire.
Per 33 anni, dunque, non presi coscienza di questa 'offerta' che pure mi fu di consolazione per tutta la vita - anzi, di 'ultima speranza' in certi momenti. Ma il 'filo' si era svolto ugualmente da solo.” Venne battezzata nella chiesa parrocchiale di Santa Barbara il 10 aprile, sabato della domenica in albis, con i nomi di Aurelia Alessandra Anna Maria.
Meno di due anni dopo nacque il fratello Aimaro, amatissimo e inseparabile. Con lui trascorse un’infanzia felice condividendo infiniti giochi fra la casa di Torino e il giardino della Cittadella dove andavano a giocare sotto lo sguardo attento della Tita, la loro governante, fra il Palas del Villar di Bagnolo, con il giardino antico punteggiato di ortensie blu, la casa della nonna paterna sul Banale a Isola di Benevagienna e la villa di Albissola. Da bambini e poi anche da ragazzi li chiamavano i Maroletti e loro due si consideravano la Società Maroletta.
A tre anni Leletta ebbe una polmonite: era gravissima, all'epoca non c'erano gli antibiotici e si temette di perderla. La mamma la curava, ma lei aveva sentito parlare del Paradiso e voleva andarci, come Teresa di Lisieux più o meno a quell'età: "Ricordo il dispiacere che provavo perché i miei non mi lasciavano andare in Paradiso." Guarì, ma dovette faticosamente reimparare a camminare e a vivere, rimanendo poi delicata di salute per tutta la vita. La mamma la portò a Lourdes in ringraziamento per la guarigione, e spontaneamente nacque in lei un'infantile devozione a Maria: piccolissima, infilava al braccio un rosario e si dondolava sulle ginocchia "per il forte desiderio sentito di assomigliare al 'ritratto' non di questa o quell'altra santa, ma della Madonna (di cui non sapeva niente)."
Da allora si portò dentro la nostalgia del Paradiso, e non ebbe mai paura della morte che anzi aspettava come desiderandola. Frequentò le prime classi elementari presso le Suore Giuseppine di via San Massimo e poi la scuola pubblica. Era una scolara intelligente e vivace, fiera delle medaglie al merito scolastico e pronta al gioco e allo scherzo. Nella cappella delle Giuseppine il 15 maggio 1934 ricevette la cresima da mons. Pinardi e l’8 giugno la prima comunione.
Per l'occasione le venne regalato un braccialetto-rosario di ametiste che sul momento non gradì, ma che in seguito portò sempre, quasi a conferma del primo rosario messo al braccio al ritorno da Lourdes. Nel pomeriggio di quel giorno - era la festa del Sacro Cuore - era seduta su una poltrona di pelle nera nel salotto di via Giannone, sola con la mamma. Racconta: "Ebbi un grande momento di raccoglimento, come capita credo a quasi tutti, e dissi poi a mia Madre che mi sarei fatta suora. Mi rispose con una certa durezza che si vede che avevo saputo che le suore si vestivano di bianco da spose.
In quel momento ebbi la certezza che avrei dovuto rinunziare ai vestiti. Ora so - disse verso la fine della vita - che furono due, da sposa e da suora."
La vita di Leletta non era intessuta solo di pie occupazioni. Era sbarazzina e lieta, fatta di giochi, di scuola, di incontri con amici e compagni, - come per tutti i ragazzi - di camminate in città e sulle colline torinesi, e anche sulle montagne di Bagnolo, soprattutto nei mesi estivi quando la famiglia si trasferiva al Villar. Per il ginnasio venne iscritta al d'Azeglio, e pure lei ne trarrà una sorta di solidale fierezza, come tanti. Qui cominciò a entusiasmarsi per la filosofia intavolando vivaci discussioni con il professore, aveva molte amiche con le quali studiava o passava le ore a parlare. Imparò a ballare insieme ad altri rampolli della nobiltà piemontese, si divertiva ai balli e alle feste e andava a pattinare sul ghiaccio. Come per le scolaresche di allora era inevitabile la partecipazione alle adunate della Gioventù del Littorio, ma volentieri le marinava per andare presso le Madri Ausiliatrici del Purgatorio o al Cenacolo a riunioni di formazione cristiana: l'incontro con alcune di queste suore fu importante per lei e confermò l'educazione religiosa ricevuta in famiglia soprattutto dalla madre e dalle zie Maria Oreglia d’Isola e Barbara Malingri di Bagnolo. La famiglia era decisamente antifascista, e questo creò qualche difficoltà ai ragazzi a scuola.

La guerra e il tempo della giovinezza
Nell'ottobre 1939 nacque un fratellino, Saverio, che subito morì. Una pensosità nuova cominciò a farsi strada in Leletta, resa più acuta da una debilitazione causata da polmoniti ricorrenti e poi dallo scoppio della guerra nel giugno del 1940. Gli Isola rimasero tuttavia a Torino, dove gli allarmi e le incursioni aeree diurne e notturne si susseguivano: molte erano le case bombardate, molti i morti e i feriti, le scuole e i servizi funzionavano a singhiozzo, c'era penuria di viveri.
In seguito a una terribile notte di bombardamenti su Torino che causò numerosi morti, incendi e devastazioni e che determinò un massiccio esodo dalla città, il 21 novembre 1942, una giornata grigia e fredda, la famiglia partì in bicicletta per Bagnolo e si stabilì nell'antica casa patrizia che divenne un rifugio non solo per loro, perché ben presto la madre aprì la sua proprietà per dare ospitalità anche ad altri. Leletta e Aimaro ogni mattina si alzavano all'alba per raggiungere il liceo a Torino e rientravano a pomeriggio inoltrato, infreddoliti e affamati. Solo l'anno seguente il Liceo Porporato di Pinerolo, pieno di sfollati, li accettò come allievi.
Dopo l'8 settembre 1943 cominciò la resistenza. Nelle valli piemontesi affluirono dalla Francia soldati italiani sbandati, considerati renitenti se non rispondevano alla chiamata alle armi nell’esercito della repubblica di Salò. La baronessa Caterina - la barona, come tutti la chiamavano – nascose nella casa avita e in piccole cascine sulla montagna partigiani, sbandati, ebrei; curò feriti e malati, aiutò la popolazione provata da uccisioni, incendi, ruberie.
Il Villar di Bagnolo Piemonte era come un piccolo feudo governato con discrezione e saggezza dalla baronessa, in tacito accordo con il comandante partigiano della zona, il comunista Barbato (Pompeo Colajanni). Leletta guardava ammirata a sua madre quando si occupava della popolazione o parlamentava con ufficiali tedeschi, o medicava i feriti facendosi aiutare da lei e dalla sorella Barbara - zia Bibi - che era infermiera. Una volta era salita in montagna di notte con il vecchio parroco don Giuseppe Bianco per recuperare una salma, rischiando di cadere in un'imboscata.
La saldezza morale di questa nobildonna ancora oggi ricordata e ammirata dai Villaresi lasciò un segno profondo nella figlia, destando in lei un'analoga forza interiore e l'attitudine a farsi carico degli altri.
Gli anni di guerra la maturarono attraverso il dolore: “Terribili esperienze di guerra, coinvolta in pieno.” scrisse. “Sono bruciate venti case al Villar e ci sono sette morti.” Il giorno dopo si seppe che i morti erano tredici. Leletta andò con la madre a portare conforto, colpita dal coraggio silenzioso di quella gente, e intanto gli incendi delle case continuarono e così pure i rastrellamenti, le perquisizioni, le uccisioni.
Nel marzo 1945 Leletta venne catturata, caricata su un camion e poi interrogata, ma se la cavò, e la rilasciarono. Annotò nel diario: “Ho rivisto come in un lampo la mia vita e ho toccato con mano l'aiuto dell'Angelo Custode.” Un estratto del diario da lei tenuto in quegli anni uscì in volume un mese prima della sua morte con il titolo Diario di Leletta ed ebbe vasto successo; nel “finale” scritto nel 1991 citò il Salmo 76: “Ho pensato ai giorni antichi e ho avuto in mente gli anni eterni.”
Nell'adolescenza attraversò una profonda crisi religiosa: non abbandonò mai i sacramenti, ma era tormentata da dubbi e prove di fede. Intorno a lei c'era l'orrore della guerra e dell'odio, ma c'erano anche tanti atti di eroismo e di fraternità, tante preghiere silenziose che in qualche modo percepiva, mentre il desiderio della verità e l'esperienza del dolore proprio e altrui scavavano nel suo cuore. E lei stessa a raccontare come avvenne la sua conversione, “con la fronte sull'ammattonato sconnesso della mia soffitta a Bagnolo”: “Al compiere dei 17 anni [...]. mi buttai sull'ammattonato della mia soffitta a Bagnolo, decisa a non rialzarmi se non avessi avuto il dono della fede e a consacrare la vita a darla agli altri. L'ebbi - ed i “Santi Salesiani” sfollati a Bagnolo: don Vismara, don Lupo, don Castellino - mi aiutarono allora a esplicitarla.”
La fede ritrovata accrebbe di nuovo fervore la sua vita interiore e la sua gioia nel conoscere, non solo attraverso il lavoro scolastico ma anche nello studio della filosofia e della teologia, e destò il vivo desiderio che quella stessa fede si accendesse in altri. Partecipava in quel periodo agli incontri della Turris eburnea organizzati dal dinamico teologo Michele Peyron per i giovani dei paesi vicini a Bagnolo, come più tardi avrebbe partecipalo alle riunioni della “FUCI infuocata di don Barra” a Pinerolo.
Il 9 giugno 1944, giorno del Sacro Cuore, nella raccolta cappella neogotica delle Suore del Cenacolo allora in corso Vittorio Emanuele I a Torino, divenne Figlia di Maria. Le radici mariane della sua vita erano così confermate, e Leletta, che progressivamente ne veniva scoprendo le profondità, tenne moltissimo alla sua consacrazione a Maria nelle Congregazioni Mariane, come un tempo si chiamavano. Quella che aveva sede presso il Cenacolo era denominata Stella Matutina.
Nell'autunno 1944 si era intanto iscritta alla Facoltà di filosofia dell'Università di Torino. La frequenza alle lezioni comportava viaggi disagevoli in bicicletta o in treno fra Bagnolo e Torino, sistemazioni di fortuna nella città disastrata, e tuttavia si entusia¬smava alle lezioni universitarie di Mazzantini, di Guzzo, di Abbagliano; aveva preso contatto con il vecchio prof. Pastore e qualche volta andava a sentire le lezioni di Bobbio.
La guerra finì e nell'entusiasmo della pace ritrovata a Torino c'era tutto un fermento culturale, politico, religioso, una vivacità di di¬scussioni e di proposte cui partecipava appassionatamente, Leletta era piena di vitalità e di iniziative, gentile e ironica, trasmetteva intorno la gioia di vivere ed esercitava un innegabile fascino sui giovani della sua cerchia.
“Eravamo un po’ tutti innamorati di lei e si sognava di averla come compagna della propria vita” così ricorda uno dei ragazzi di allora. Aveva infatti molti amici con i quali s’incontrava per discutere o per intervenire a riunioni, e con loro s'interrogava con serietà sull'orientamento da dare alla propria vita. Nella contentezza di sentirsi vivi e senza pericoli incombenti che accomunava i giovani di allora. Leletta non mancava ai balli e alle filodrammatiche giovanili, frequentava con impegno incontri cul¬turali, mostre, i corsi del Centro Culturale Cattolico che era sorto nel palazzo dei conti Rossi di Montelera in via Pomba 1, visitava i malati al Cottolengo, animava le iniziative dell'Apostolato della Preghiera, e, da sola o con amici, andava a pregare e a adorare nelle chiese della città, prima fra tutte la Consolata, ma anche San Domenico.
Qualche volta aveva partecipato con spirito critico e libero alle riunioni dei “sinistri cristiani” che si tenevano intorno a Felice Balbo.
La famiglia intanto era tornata a Torino e abitava in corso Oporto 33, quello che avrebbe preso il nome di corso Matteotti.
Domenicana
Leletta studiava con rigore e con passione, e intanto si faceva strada in lei il desiderio di una più intensa donazione a Dio; decise perciò di fare una novena a san Benedetto, il padre dei Monaci, per capire verso quale ordine dovesse orientarsi. Fu allora che conobbe padre Enrico di Rovasenda, domenicano, il quale la presentò a suor Domenica, una religiosa che durante la guerra era rientrata in Italia da un monastero domenicano francese di stretta osservanza e che voleva fondare a Torino una congregazione femminile di indirizzo apostolico. Con altre due religiose aveva trovato una sistemazione provvisoria nella dépendance della villa La Tesoriera, in corso Francia, appartenente ai duchi d'Aosta, che chiamavano Cateriniaitum o “Conventino.” Leletta, nonostante la netta opposizione della famiglia per evidenti ragioni di salute, vi entrò il 2 luglio 1947 e subito partì per Gressoney Saint-Jean dove in una baita cominciò il postulato. Il 2 gennaio 1948, nella cappellina della Tesoriera, prese l'abito domenicano con il nome di suor Consolata. La costruzione era umida e gelata, la vita conventuale dura e non priva di asprezze. Si ammalò di tubercolosi da entrambi i polmoni e dovette esser ricoverata all'Ospedale San Luigi. Guarì inaspettatamente dopo circa un mese di ricovero, nella festa del Corpus Domini, ma rimasero una bronchiettasia e un enfisema che si aggravarono negli anni.
A motivo della salute venne ritenuta non idonea alla vita religiosa. Così, dopo un pellegrinaggio a Lourdes nel quale chiese alla Madonna la forza dell’accettazione, l'8 settembre 1948 avvenne la svestizione religiosa e dovette lasciare la vita comunitaria domenicana.
La sua giovane esistenza era come spezzata: ogni progetto era caduto, la salute risultava gravemente compromessa, insidiata da febbri persistenti e da un'estrema debolezza. Passò un inverno di solitudine e di prove interiori ad Albissola, poi, tornata in famiglia a Torino, riprese gli studi in filosofia e si laureò con il prof. Nicola Abbagnano con una tesi su Aristotele dal titolo: Spunti di morale aristotelica.
Era il giorno di san Martino, 11 novembre 1950. “Non recuso laborem! - non rifiuto la fatica!” - esclamò umoristicamente sull’esempio di Martino richiamato alla vita dalle pressanti suppliche dei discepoli, come è narrato nella leggenda medievale. Festeggiò poi ogni anno con divertimento quella data. Un mese dopo, l’8 dicembre 1950, festa dell'Immacolata, fece la professione nel Terz'Ordine Domenicano presso la chiesa di San Domenico con il nome di suor Consolata. La chiamata domenicana avrebbe rivestito per lei forme diverse da quelle che aveva immaginato quando aveva deciso di entrare in convento. La sua vocazione sarebbe stata nel mondo, fra la gente, sempre in assoluta fedeltà allo spirito dell'Ordine.
Amava di san Domenico la passione apostolica e la dolcezza, e visse la sintesi domenicana di contemplazione e azione:l'azione, l'insegnamento, la predicazione dovrebbero derivare dalla pienezza della contemplazione.
Contemplata aliis tradere, secondo la formula di San Tommaso, quel santo che fu maestro di teologia e di sapienza cristiana e che lei chiamava confidenzialmente Tommy o Tom, forse per sottrarlo a ogni paludata distanza, forse per dire quanto possa essere moderno se rivisitato senza pregiudizi. Alla teologia e all'antropologia di Tommaso, come alla sua spiritualità, continuò a ispirarsi sempre, anche quando ciò era visto con sospetto dalle nuove voglie ecclesiali. Scrisse a un'amica: “Contemplala aliis tradere!Dare agli altri il frutto della contemplazione, la VERITÀ”, la PACE, fare come gli apostoli che, appena incontrato Gesù, correvano a dirlo a un altro... che cosa bella! Saprai dell'accorata domanda di san Domenico: “Signore, cosa ne sarà dei peccatori?” Il Signore ha risposto: “Quello che vorrai tu!”Voleva dire che ha voluto che la loro salvezza dipendesse da noi, perché potessimo poi, in Paradiso, ringraziarci tutti a vicenda.”
Verso la fine del suo soggiorno al Caterinianum aveva conosciuto padre Ceslao Pera. Era un domenicano del convento di San Domenico, uomo di vigorosa tempra umana e intellettuale, di ampia cultura, grande studioso di Tommaso e di Dionigi, e figura di spicco nella cultura torinese, che non fu solo di ex-azionisti e di comunisti - come lascia credere la vulgata culturale dominante - ma che ebbe pure una sua vivacità nel mondo cattolico e figure notevoli come Mazzantini, Guzzo, Del Noce, Vallari, Michele Pellegrino, e altri ancora. Padre Pera era maestro di teologia e di vita spirituale per religiosi e laici, così Leletta trovò in lui ad un tempo la guida per la vita interiore e per lo studio di Tommaso che aveva già cominciato anni prima a Bagnolo con il salesiano don Tiburzio Lupo. Si ingenerò fra loro un rapporto franco e affettuoso, e una profonda consonanza: gli incontri nel parlatorio di San Domenico erano frequenti e lei era assidua alle conferenze che si tenevano nella sala Cateriniana attigua alla sacrestia della chiesa.
Padre Pera insegnava, seguendo Dionigi: amor exstasim facies, l'amore fa uscire da sé. Leletta sviluppò con accenti personali quell’intuizione. Lo studio per lei non è fine a se stesso, è ordinato alla carità della verità che è “l’opera di misericordia di dare la verità” attraverso la parola.
Ma questa non deve essere una parola qualsiasi: “Verbum non qualecumque sed spirans amorem,” come dice Tommaso; e Leletta spiega: “Io lo intendo nel senso che una parola, molte parole, che non spirino amore sono intellettualismo, non sapienza, non il VERBO che accende di Spirito Santo, il quale a sua volta introduce alla verità totale.”
Verità e amore sono per lei le polarità inscindibili di un'unica realtà che trae vita, significato ed efficacia da Dio stesso.

La scuola
Nel maggio 1951 venne chiamata a insegnare filosofia e pedagogia già presso il Convitto della Provvidenza di Bra, e così nell'anno scolastico successivo. Si alzava prestissimo il mattino, partecipava alla prima messa nella chiesa di San Secondo, vicino alla stazione di Porta Nuova, e poi correva a prendere il treno, rientrando a casa solo a metà pomeriggio.
Insegnare le piaceva, il rapporto con le allieve e le colleghe era intenso e cordiale, ma la salute sempre fragile risentiva di questo eccessivo strapazzo. Dal 1952 insegnò a Torino. all'Istituto del Divin Cuore delle Suore Domenicane che era in via Bertrandi.
Abitando a Torino i contatti amichevoli si moltiplicarono e intorno a lei venne allargandosi tutto un mondo di relazioni: non solo gli amici e le alunne, ma altri venivano a cercarla. La madre la sentiva come assediata e se ne preoccupava perché spessissimo tossiva, aveva febbre, era affaticata. Nella giovane Leletta, di un'intelligenza viva e penetrante, dotata di una simpatia comunicativa e di un'intensa spiritualità, veniva delineandosi con tratti sempre più marcati quello che l'avrebbe contraddistinta: il saper essere madre nell’anima, guida interiore, maestra di vita spirituale - e tutto questo con uno stile inconfondibile fatto di intuito e di affettuosità e anche di autorevolezza e di lucidità.
I consigli che venivano da lei non erano dettati da buon senso o da trovate estemporanee o sentimentali, ma da una sapienza filtrata da secoli di pensiero e di spiritualità cristiani che si rinnovava in lei in modo personale, con accenti di delicatezza e di humour, e con un robusto fondo contemplativo. Le sue parole riflettevano una chiara concezione filosofica e teologica dell’uomo e della storia, che solo in parte si può dire resti implicita nel suo insegnamento spirituale, perché scrisse testi sintetici ma di notevole impegno, oltre naturalmente a infinite lettere. La sua era una predicazione sui generis che aveva luogo in un clima di amicizia e attraverso l'amicizia, radicata in quella che san Tommaso chiama la verità della vita: un intreccio di sapienza pratica e di spiritualità, con il pacificante ordinarsi di ogni elemento nell'armonia posta nell'uomo e nel cosmo da Dio stesso che è Verità.
Trovava la sua giusta espressione, a seconda delle circostanze, nell'insegnamento della filosofia ai giovani, nelle riunioni culturali, e - soprattutto negli ultimi anni - negli infiniti contatti umani, incontri e colloqui della quotidianità che riempirono tutto il suo tempo, quello non riservato alla preghiera e allo studio. Nel marzo 1955 morì suo padre, il barone Vittorio d'Isola: “Tramontano con lui le liete conversazioni umane,” scrisse. Il vuoto lasciato da quella morte era grande, Leletta era di nuovo debolissima e malata, pesava solo 30 chili. Aveva tuttavia superato lo scritto del concorso nazionale per insegnare filosofia nei licei statali e bisognava che si preparasse all'orale che richiedeva un notevole impegno. La curava il dottor Ernesto Barone, “con amore e discussioni filosofico-teologiche,” diceva la mamma.
Fu un periodo faticoso, allietato tuttavia da un lungo soggiorno estivo a Bagnolo di don Giorgio Castellino, grande biblista e coltissimo maestro di cose spirituali, uno dei salesiani che avevano frequentato il Palas negli anni di guerra. Nel mese di dicembre Leletta superò brillantemente a Roma la prova orale del concorso ed entrò nella graduatoria nazionale per le cattedre di filosofia. Ai primi di ottobre del 1956 seppe di essere stata nominata al liceo scientifico Filippo Masci di Chieti e dovette partire in tutta fretta per raggiungere la sede designata. La sua prima impressione di Chieti fu entusiastica: “il paese è bellissimo,” scrisse alla madre e subito amò “il forte e gentile Abruzzo.” Si stabilì presso una vedova, la signora Sacchetta, in via Madonna degli Angeli 73 e di lì usciva la mattina presto camminando veloce per la salita della Saponara per andare a messa nella cattedrale di san Giustino prima delle lezioni a scuola.
Colpiva la gente per la sua sobria eleganza e la signorilità, per l'estrema gentilezza.
Alcuni che l'ebbero come insegnante ricordano che le classi allora erano numerose e gli alunni indisciplinati; lei era una professoressa severa, esigeva molto, ma dava moltissimo, e aggiungono: “Aveva qualche cosa di unico, accendeva dentro.” Da subito fu apertissima a ogni incontro, con le persone colte e con la gente semplice, in particolare con gli allievi che presero l'abitudine di andare da lei il pomeriggio o la sera.
Aiutava economicamente, con grande discrezione, famiglie disagiate attingendo al proprio modesto stipendio. Mons. Muffo, il parroco nella cattedrale, comprese tutto questo, vide la sua stoffa di grande educatrice, perciò chiese la sua collaborazione per l'Azione Cattolica e cominciò a mandarle i giovani.
Accadeva che venisse chiamata per conferenze nei paesi vicini, soprattutto nell'ambito del Movimento Laureati di Azione Cattolica. Era interessata a ogni realtà culturale, curiosa di ogni manifestazione umana, da quelle del variegato folclore abruzzese a quelle del patrimonio storico, artistico e di pensiero legato a quella terra. Cominciarono così i suoi studi storici sulle tracce di san Tommaso in Abruzzo, in particolare su Loreto Aprutino dove c'è un castello appartenuto agli Equino, su Teodora madre di Tommaso, sugli affreschi della chiesa di Santa Maria in Piano.

Aosta
Dopo la sua partenza per Chieti le condizioni di salute della mamma erano progressivamente peggiorate e per poterle essere di aiuto Leletta chiese di avvicinarsi a Torino.
Nell'ottobre 1959, dopo tre anni di permanenza in Abruzzo, venne chiamata a insegnare filosofia e storia al liceo classico di Aosta. Anche questa volta dovette partire d'improvviso, facendo una breve sosta a Bologna giusto per pregare sulla tomba di san Domenico. Arrivò in Valle d'Aosta, dove sarebbe rimasta per sem¬pre, il 9 ottobre sotto un cielo plumbeo e prese alloggio presso la signorina Apollonia Vicquery in via Saint-Martin de Corléans 19; l'anno seguente si trasferì all'ultimo piano del palazzo in corso XXVI febbraio 20.
Per gli studenti fu anche qui la signorina d'Isola: una professoressa preparata e colta, severa ma aperta a qualsiasi discorso e capace di un rapporto libero e niente affatto convenzionale con i ragazzi, disponibile a incontrarli in qualsiasi momento e per qualunque cosa di cui avessero bisogno.
La sua figura svelta e minuta divenne abituale nei corridoi del liceo e per le strade della città. Salutava con brio, si intratteneva volentieri, dedicava molto tempo agli alunni, ricevendoli in casa o andando con loro a fare passeggiate.
Fin da quei primi mesi amò di un amore profondo la Valle d'Aosta, la sua gente, i suoi preti. Qui aveva fatto il postulato domenicano nell'estate 1947 e qui tornava per sempre, non da religiosa bensì da laica, per operare secondo il Vangelo. Si era immedesimata sempre con simpatia con ogni peculiarità del luogo dove era chiamala a vivere: così avvenne, e in modo specialissimo, per la Valle d'Aosta: pochi mesi dopo, il 26 febbraio 1960, fece a scuola la sua prima commemorazione dell'autonomia valdostana e si allietò della città imbandierata: “Tutto quell'araldico rouge et noire è bellissimo!” scrisse alla madre.
Cominciò a collaborare con i preti che si occupavano dei giovani: don Carlo Bovard, suo collega professore di religione, e soprattutto con don Luigi Maquignaz, giovane viceparroco della parrocchia della cattedrale - parroco era all'epoca mons. Edoardo Brunod - che guidava un fiorentissimo oratorio.
Dare Gesù ai giovani, guidarli alla verità nell’amore, questa era la consegna che l'animava, ed era infaticabile nella sua disponibilità. Il rispetto carico di simpatia che aveva per tutti faceva sì che l'av¬vicinassero con naturalezza anche quelli che non condividevano le sue convinzioni religiose. Vari studenti di allora ricordano che da lei traspariva la fede, ma in maniera “non bigotta.” Sapeva dialo¬gare. Uno di loro dice: “Portava gli alunni a interrogarsi sul senso della vita, li faceva interrogare su se stessi e accettava qualunque risposta.” Ma parlava anche di Dio e orientava la mente e il cuore dei giovani verso il Vangelo, diventando per molti stimolo e guida per una più intensa vita interiore e di preghiera, e per una coerente testimonianza cristiana.
Nel giugno 1963 arrivò a organizzare nel villaggio di Bonne un corso di esercizi spirituali per gli studenti di terza liceo, con silenzio assoluto per cinque giorni, predicati da mons. Brunod e don Maquignaz; e non è da credere che tutti i partecipami fossero ferventi cattolici.
Nelle passeggiate che faceva con gli studenti fuori città, accadeva che “casualmente” arrivasse don Maquignaz con la sua moto, e si finiva col parlare di Dio e del Vangelo. Tutto questo impegno per annunciare senza timidezze la verità di Cristo le richiedeva uno sforzo estremo per superare la stanchezza e la malattia, sempre in un'atmosfera di affettuosità e di gioia.
La sua preghiera di ogni giorno era: “Maestro, insegnami a insegnare!”
A insegnare, certo, la filosofia e la storia, ma non solo le materie scolastiche. In una lettera che scrisse a un'amica sofferente è svelato un po’ del suo segreto. Vi si coglie lo spirito della sua presenza fra i gio¬vani, il senso della sua capacità di accogliere e di comprendere, e la profondità dell'amore con il quale amava non solo i ragazziche le erano affidati ma tutti quelli che venivano a cercarla con i loro drammi e le loro povertà. Leletta vedeva ogni cosa, anche e soprattutto il male e il dolore, nella realtà per lei indubitabile della redenzione: “La radice della nostra vita di donne è veramente l'amare (non a parole), e la radice della nostra vita cristiana è di nuovo la carità, spesso rifiutata da coloro che ci spaccano il cuore, come fecero per un Altro Cuore, ma non mai rifiutata da Colui che è Carità per essenza. In charitate RADICATI...
Solo quando si è già maturati dalla sofferenza, come te, e dalla solitudine, e quando perciò la natura porterebbe all'egoismo, alla chiusura, allo scoraggiamento, solo allora il nostro darsi è tutto nella fede, tutto soprannaturale.
Il dolore non è infatti un problema: è un mistero, cioè un problema la cui soluzione se l'è riservata Colui che sa tutto e che è tutto. La chiave risolutrice l'abbiamo già davanti. Davanti non all'intelli¬genza, ma all'occhio del cuore, ed è la Croce. Essa ci dice che, in Cristo, ogni sofferenza è bene accetta al Padre. Perché? come? non sappiamo.
Non ci resta che rinnovare, davanti ad ogni dolore il nostro atto di fede: “TU SCIS (Tu sai).” La nostra speranza: “accetta questo sacrificio che io, parte di un popolo sacerdotale, ti offro nella Messa insieme a quello del Primogenito.” Poi il nostro amore deve avvolgere di ogni tenerezza tutte le sofferenze che ci sono vicine - sulla nostra strada - e non lasciarsi travolgere da quelle lontane che i mass media mettono troppo alla nostra portata. Dico “troppo” perché non si tratta più di una misura umana. Tu ed io possiamo credere sperare ed amare per la nostra “piccola clientela,” come diceva P. Pera, e solo il Signore può mandarne qualche gocciolina anche a tutti i ragazzi drogati - a tutti i ladri e gli assassini - noi no. Noi scopiamo umilmente davanti alla nostra casetta, laviamo i piedi dell'uno e dell'altro nella nostra bacinella, sicuri che siamo servi inutili di un buon Signore che ci utilizza lo stesso quasi per gioco.”
Leletta era anche fine psicologa. In quella stessa lettera ad esempio dice: “I giovani sono molto più soli di quanto sembra e molto più sensibili di quanto il loro atteggiamento lasci supporre. Ti guardano magari quasi con odio per un'ora, e poi ti rimpiangono.” L'insegnamento al liceo di Aosta durò nove anni: le difficoltà respiratorie aumentavano, aveva una scarsa ossigenazione, le bronchiti si susseguivano, eppure aveva continuato a far scuola. Solo nel 1968 venne messa a riposo “per cause di servizio,” ma per qualche anno fu senza pensione.
Gli alunni antichi o recenti che volevano incontrarla, impararono la strada del Priorato di Saint-Pierre dove da due anni risiedeva.

Saint-Pierre
Il 9 settembre 1965, la madre, la baronessa Caterina, si era spenta a Bagnolo, assistita con grande affetto e dedizione dai due figli Aimaro e Leletta, e lei era tornata ad Aosta con il cuore stretto per quel distacco e per aver lasciato il fratello solo a Torino. Du¬rante la malattia, quando la mamma ebbe il primo coma e pareva non risvegliarsi più, nella notte del 16 ottobre 1963 era sorta in lei questa preghiera che sentì come suggerita dalla Madonna: “Fammi fare la volontà del Padre, con Gesù, nello Spirito Santo, come Maria.” Con il tempo calcò sempre più il “come Maria”:“Maria che magnifica il Padre, che è con Gesù, tranquilla dimora dello Spirito.”
Dal 23 giugno 1966 si era stabilita al Priorato di Saint-Pierre, a pochi chilometri da Aosta, sulla strada che porta al Monte Bianco. Il Priorato sorge con la sua bella chiesetta ottagonale tra il verde dei prati, la dolcezza delle viti e dei meli, sovrastato dalla pura bellezza della Grivola e degli altri monti. Furono mons. Brunod e don Luigi Maquignaz a caldeggiare quella sistemazione; entrambi già tempo addietro si erano recati d'estate al Palas a chiederle di rimanere in Valle d'Aosta. Il Priorato sarebbe stato la sua casa, e questo l'avrebbe ancor più attaccata alla terra e alla diocesi di Aosta.
Pochi giorni dopo esservisi trasferita, il 26 giugno, durante la prima messa di don Alberto Careggio, aveva offerto se stessa “per la diocesi - come échantillon della Chiesa Universale.” Il senso ecclesiale, l'amore appassionato per la chiesa locale e per quella universale, fu una caratteristica della spiritualità di Leletta: soffrì per la Chiesa e di ogni attacco alla Chiesa, delle lacerazioni del post-Concilio e di un tipo di predicazione non sempre sufficientemente attenta a proclamare le verità di fede. A don Tiburzio Lupo scrisse con una sfumatura di umorismo che ben rivela il suo coinvolgimento emotivo: “Preghi per me. perché veramente l'Amore per la Chiesa mi costi pure sangue, ma non mi faccia fare... del sang gram!!...” (ossia “sangue cattivo”).
Al Priorato ebbe modo di conoscere da vicino il canonico Alfonso Commod, una tempra straordinaria di sacerdote che univa un'intensissima vita contemplativa a doti di praticità e di realizzazione. Più tardi, in mezzo a molte difficoltà, scrisse un libro su di lui in collaborazione con don Careggio (che sarebbe poi diventato vescovo): Don Alfonso Commod. Sui sentieri di Dio.Musumeci Editore, Aosta 1980.
Don Commod, che molti chiamavano “il Professore” per il suo insegnamento nel Seminario diocesano, voleva che il Priorato, di cui dapprima era stato incaricato dei restauri ma di cui ora era superiore, fosse non solo una casa di riposo per sacerdoti anziani, ma anche un luogo di incontri con Dio. Sentiva che la preghiera contemplativa era necessità essenziale per la Valle che rischiava di cadere anch'essa nella secolarizzazione e nell'ateismo, e desiderava che sorgessero perciò spazi e comunità a questo scopo.
Leletta, che sul principio non aveva provato grande simpatia per lui, considerò poi una grazia grandissima l'averlo incontrato e aver potuto collaborare per fare del Priorato un luogo privilegiato di preghiera, di incontro fraterno, una casa per incontrare Dio.
Da tempo vi si tenevano corsi di Esercizi spirituali. Leletta comin¬ciò a inviare a conoscenti e amici, in tutta Italia, lettere e opuscoli perché tanti vi partecipassero: raccomandava che venissero, che estendessero l'invito. Una pausa di silenzio e di ascolto profondo le pareva il principale rimedio ai mali che travagliano la mente e il cuore degli uomini nel tempo presente, e lo consigliava a tutti. Sentiva che solo così ciascuno può ritrovare il proprio baricentro e rimettersi in piedi, ben diritto. Durante gli esercizi pregava intensamente per la loro buona riuscita: perché le anime si aprissero a Dio ed Egli potesse riversarvi la sua grazia, e perché ci fossero frutti di misericordia. Rimaneva rinchiusa nella sua stanzetta del secondo piano che nel frattempo era andata ad abitare, e lì pregava, pregava, tenendosi tuttavia a disposizione di chi voleva incontrarla, senza mai però sovrapporsi o sostituirsi al sacerdote. La collaborazione con il canonico Commod si basava su un'intesa radicale sul piano spirituale, ma anche sull'identica visione dello scopo e dei compiti del Priorato, e proprio al Priorato si rafforzò quel dono che già era in lei fin dagli anni giovanili, ossia la capa¬cità di farsi maestra di vita interiore, con semplicità e con grande compassione.
Era la portinaia del Buon Dio,come lei stessa diceva, colei che accoglie e introduce chi arriva nella casa del Signore. Questo suo compito continuò dopo la morte del canonico, avvenuta il 14 gennaio 1974, con i successivi superiori, i canonici Camillo e Giulio Rosset. Capitava che chi saliva alla sua stanza per incontrarla trovasse varie persone in fila nel corridoio in attesa di parlarle. Si bussava alla sua porta, lei rispondeva con un festoso: “Avanti, avanti!” e si era accolti da un lungo: “Oooh!” di gioia come se si fosse attesi da tempo. Lei stava allungata su una sedia a sdraio e una bombola di ossigeno che l'aiutava a respirare, la sua fragilità era estrema, ma nonostante tutto riceveva visitatori per ore e ore.
Così un'amica ricorda quella celletta: “La finestra aperta al sole che filtra tra i monti, i libri, la sedia a sdraio, le bombole di ossi¬geno, il Crocefisso d'avorio sull'inginocchiatoio, la statua barocca della Madonna, che domina un mondo stretto dal serpente, e ancora sull'opposta parete, libri.” Là, testimonia don Giulio Rosset, “occupò il tempo come il suo santo Maestro Domenico o 'a parlare con Dio nella preghiera o per parlare di Dio.'
Parlava con Dio nelle tante ore dedicate alla preghiera.
Ogni giorno la sveglia era alle 3.30. Nella cappella del Priorato, al freddo nei mesi invernali, si incontrava col Signore nel dialogo, nell'ascolto, nell'intimità della comunione. [...]
Dedicava la mattinata alla costruzione di icone che poi regalava agli amici. In un secondo tempo si specializzò nella confezione di corone di Rosario che, mentre venivano donate, le offrivano l'occasione di parlare della devozione alla Madonna. Durante la mattinata, era anche molto presa dalla corrispondenza. Il rapporto epistolare di Leletta è ricco di dottrina e di indicazioni morali e spirituali; rivela una profonda conoscenza dell'animo umano e una costante preoccupazione di dono di sé agli altri.
I suoi richiami erano sovente quella parte di coscienza da cui spesso si sfugge perché scomoda e veritiera. A volte dovette soffrire anche per le inevitabili incomprensioni. Ma sapeva di lavorare per Dio e per nessun altro scopo: per questo il Signore la rese davvero donna povera e umile, coraggiosa e libera, chiamandola a testimoniare, come le grandi mistiche medievali, i luminosi valori dello spirito di cui la nostra società ha urgentemente bisogno.”
La “piccola clientela” di Leletta era costituita dall'umanità più varia: conoscenti, amici, ex-allievi, ospiti del Priorato, ma anche gente che veniva da ogni dove, persone malate, con problemi psichici, con depressioni, crisi esistenziali, gravi difficoltà familiari o di ordine economico; c'era chi era nel dubbio o nella ribellione, e c'era chi andava da lei per trovare chi l'indirizzasse nella ricerca della propria vocazione, per la vita di preghiera, o per trattare di questioni spirituali e di teologia. Con lei infatti potevano essere affrontate le cose più “terra terra” fino a quelle più alte della vita dello spirito.
“Accoglieva le persone con entusiasmo e gioia. Sorridente e con una stretta di mano forte; a volte univa le sue in una stretta ancora più affettuosa di un abbraccio, e il suo braccialetto-rosario e le medaglie tintinnavano... Faceva accomodare sulla sedia o sul letto. Faceva 'vuotare il sacco' con domande che non suonavano mai inquisitorie. Partecipava con esclamazioni, risate, commenti. Ricordava i dettagli da un incontro all'altro. Aveva una memoria incredibile. S'infuriava, s'indignava, ma non ha mai dato l'impressione di spazientirsi con nessuno.” Così scrive un'amica, e aggiunge: “Gli incontri la sfiancavano per la quantità di persone e per gli argomenti e le sofferenze di cui si faceva carico.” Un suo discepolo ricorda: “Anche nello sfinimento non ha mai cessato di essere Predicatrice.”
Nel pomeriggio Leletta parlava di Dio. Nella sua stanzetta si avvicendavano persone di tutte le età per un colloquio, un dialogo, un confronto.
Tutti - è testimonianza comune - ripartivano con l'animo più sereno, con una speranza ricostruita o consolidata.”
Di quegli anni mons. Alberto Careggio ha scritto: “Il periodo vissuto nel Priorato fu certamente il più fecondo nella vita di Leletta, ormai giunta alla sua piena maturità umana e spirituale. [...]
Quell' avanti…avanti che diceva indistintamente a tutti coloro che bussavano alla sua camera, non era solo un invito a entrare, ma soprattutto un invito a procedere nella ricerca di quella Verità 'che illumina ogni uomo,' a camminare sulla via della vita interiore e a intensificare gli incontri con il Signore.
Le testimonianze di coloro che hanno trovato la fede, il coraggio, o la propria vocazione, non si contano.
Le visite di sacerdoti, di persone d'ogni ceto e cultura come anche di personaggi importanti e di studiosi nel campo della teologia e della filosofia, erano ininterrotte: per tutti c'era quella parola chiarificatrice, ispirata dalla fedeltà al Vangelo, dall'insegnamento della Chiesa, dalla fedeltà all'ortodossia che vedeva minacciata da un certo lassismo sia sul piano teologico, sia su quello disciplinare.
La sua religiosità era fattiva, intessuta di gesti concreti attenti anche alle necessità materiali di chi veniva da lei, il suo amore era “espansivo e discreto.” Offriva con generosità piccoli doni e a volte, se necessario, aiuti consistenti. Era dotata di una spontanea simpatia e di una spassosa ironia e autoironia.
La sobria eleganza, la cura di sé, non contraddicevano la povertà che era reale, poiché tutto ciò che indossava le era stato regalato, e il suo denaro andava per aiutare gli altri.
“Dava ad ogni visitatore l'impressione di essere importante, unico, ma non più importante di altri; diceva di non fare differenze di persone. Riceveva con molta attenzione, sapeva mettere a proprio agio, offriva sempre (non in Quaresima) dei dolciumi, talvolta agli uomini un liquore, del vino (quando glielo regalavano), il thè alla sua ex-collega un po' chic. Aveva predisposto una scatola (con giochini, perle, carillon...) per distrarre i bambini durante i colloqui con le mamme.”
Non mancarono anche nel periodo del Priorato momenti di contrasto e, soprattutto ai tempi della contestazione ecclesiale, incomprensioni e disaccordi con persone prossime e lontane, su temi di dottrina e di prassi ecclesiale. “Mi sono sempre sentita accolta da lei anche e soprattutto quando non era d'accordo con me. Non mi ha mai imposto nulla, ma ha sempre saputo propormi la sua testimonianza nell'ambito della mia libertà,” dice un'amica ricordando gli scontri che ebbe con lei ai tempi della contestazione sul tema delle scelte politiche e sulla teologia della liberazione.
Il card. Georges Cottier, teologo della Casa Pontifìcia, che ben la conobbe durante i suoi soggiorni estivi al Priorato e che le fu amico, ha scritto: “Aveva un senso acuto delle esigenze della verità. E’ potuta sembrare ad alcuni intransigente, ma il suo rigore scaturiva dal sapere che la purezza della fede teologale è la pietra preziosa che bisogna difendere prima di tutto nella nostra epoca di grande confusione teologica. Ha sofferto molto della crisi dell'intelligenza cristiana. Le approssimazioni, le imprecisioni, perfino in alcune preghiere liturgiche, la ferivano profondamente, perché capiva che l'opera della salvezza viene compromessa quando le anime perdono le luci essenziali.”

Madre nell’anima
Quali erano le parole pronunciate da Leletta negli infiniti colloqui, quali le sue preghiere?
Pregava per ore nella notte, la chiesetta silenziosa, le luci accese perché i camionisti che transitavano sulla strada del Monte Bianco vedendo nell'oscurità le finestre illuminate di una chiesa non si sentissero soli o potessero volgere il pensiero al Signore. Partecipava sempre alla preghiera comunitaria, e pregava nelle ore di solitudine nella sua stanzetta; pregava confezionando icone e rosari o nell'ombra raccolta della cripta. “La sua preghiera era ininterrotta,” dice una testimone. Per questo le sue parole erano piene di Dio, e al tempo stesso calde e affettuose, concrete.
I suoi consigli avevano la forza che deriva dalla contemplazione di Dio e della verità, ne racchiudevano l'ardore. Voleva diffondere il fuoco dell'amore di Dio nel gelo dell'egoismo del mondo. Don Maquignaz ricorda una sua frase: “un'anima si accende con un'anima accesa,” e un'altra di san Bernardo, che Leletta amava, e che delinea l'orizzonte entro il quale operò: “Quando in un posto c'è il gelo, il freddo, accendete piccoli focherelli e la gente verrà a riscaldarsi.”
Le parole che diceva ai suoi visitatori, adeguandosi ogni volta alla persona che era venuta a cercarla, venivano scritte nei cuori e hanno lasciato tracce durature soprattutto nell'invisibile. Chi può ripeterle tal quali? Gli anni sono passati e la memoria fatica a ritrovarle. Fortunatamente Leletta tenne un'estesa corrispondenza nella quale s'intrecciano sapienza e poesia, e proprio nelle lettere rimaste e in quelle che verranno ritrovate potremo cercare echi tangibili del suo insegnamento spirituale. C'era un elemento intensamente femminile e soprattutto materno in quel suo prendersi cura. “Non mi sarebbero bastati i ventitre figli della mia bisnonna!” diceva ridendo. Ebbe il senso dell'amicizia e fu circondata da innumerevoli amici, ma il suo cuore vibrava di un timbro particolare quando si trattava di maternità. Forse ciò le veniva da sua madre Caterina, nella certezza che “i semi di maternità diffusi nel mondo fioriscono sempre, e attraversano i luoghi e le generazioni,” come ha scritto Rosalia Andreassi. E' il filone che percorreremo per comprendere ciò che Leletta era per chi andava da lei e riporteremo alcune sue parole prendendo lo spunto da un bellissimo epistolario che ebbe con una giovane mamma.
“Il Signore sa quanto ammiri le Madri, restando mezza morta di fifa ad ogni parto di quelle più vicine!” confessava;” e un giorno scrisse: “Mi siete tutte tanto care e vi presento ogni giorno al Signore con tutto il vostro 'grappolo,' che dovete portare in Paradiso dorato e splendente... (una Madre è un po’ come un Parroco...no?).” Consigliava di vivere l'attesa insieme alla Madonna: “Di' insieme a lei il tuo sì e fa' con lei l'offerta della tua creatura, nella certezza che nessun luogo per lei è più sicuro che le Mani di Dio.”
In una gravidanza difficile, nel giorno della Presentazione di Gesù, esortava: “Le Mamme si ricordino di offrire a Dio i loro Figli, come Maria e Giuseppe” e per entrambi gli sposi aggiungeva, alludendo alla fecondità dell'amore: “Come devono piacere al Signore le vostre disposizioni! Nella sua Bontà, il Signore 'velerà' con questo vostro amore le disposizioni meno buone di molti genitori che non sanno quanto è loro vicino l'Autore della Vita, il Redentore, il Santificatore che ci danno la vita umana e quella divina!” L'allusione trinitaria è evidente, il riferimento a Dio costante, e i consigli - pratici o spirituali - non sono mai banali, come questo dato a una giovane mamma indaffarata che sente il desiderio di pregare di più: “Un sistema, suggerito da Maestro Ekkart, grande mistico, è di pensare un po' di tempo, p.es., la particella “con” (= mi alzo con te Gesù 'per fare la volontà del Padre,' 'ecco io vengo... ecc.'). Con te Maria alzo i 2 pargoletti... Con te e con tutte le donne del mondo a te care, sotto gli occhi del Padre, corro a destra e a sinistra, fuori e dentro casa, compiendo la 'danza della volontà di Dio' (che troverai in Madeleine Delbrêl), con te corro incontro al prossimo, ecc. Se non ingrana, si prega sul binario “per” il Padre che è nei Cieli, ecc. Oppure “in”...”
A una sposa dice: “Tutti sono limitali...ma il Signore vi ha voluti insieme per correggervi reciprocamente come hai ben capito, con umiltà e pazienza. Anche verso di lui devi introdurre la dimensione soprannaturale: 'lo amo Signore anche perché è tuo e perciò mi guardo bene dal risentirmi se ha qualche difetto, sapendo bene che i fiori e le foglie dalla radice del Peccato di Origine li abbiamo tutti, finché tutta una vita di grazia e di sacramenti non li elimini'.”
Sullo stesso tema a un'amica provata da anni di incomprensioni: “Il Signore è con te, hai una bella vita spirituale con Lui: il suo Spirito di fortezza non ti mancherà, anche dove umanamente non si potrebbe arrivare... Nei momenti di rischio di scintille prova a dire interiormente: 'O Maria. Madre sua [di*] e Madre mia...!' e vedrai che Lei corre subito e ti aiuta poco per volta a migliorare la situazione. Questa vita passa presto, con le sue prove. L'essenziale è arrivare in Paradiso con i propri Cari... Le donne sposate devono rimorchiar lassù i propri Mariti a qualsiasi prezzo!”
In altra occasione dice: “Dal punto di vista umano poi è più bel¬lo vedere una Moglie che copre gaffes e limiti piuttosto che una snervata dai medesimi... Sarebbe una bella testimonianza di carità perfetta - un esempio per i Figli e per altri. Ti penso sempre con ammirazione e affetto e spero che Maria benedetta fra le donne e al corrente dei loro grossi problemi e della loro solitudine ti strabenedica.”
Quando la vita familiare presenta forti tensioni, dopo aver esaurito i mezzi umani, il suggerimento fondamentale è quello della carità: “So che usate con tanta carità - carità che, volendo il suo bene, comprende anche le sgridate! - e questo è l'unico modo giusto di prendere le cose.
“Vincete con il bene il male,' ci dice il Signore. Questa è una metodologia sempre giusta. Infatti ogni negatività si vince con l'Amore, il quale essendo da Dio, positivizza tutto, anche le condizioni fasulle di esistenza (tempo frenetico) che questa fasullissima e materialissima civiltà del benessere ha saputo imporci. E' una sofferenza grande e reale che vissuta come croce nell'amore è oro...”
Un'altra volta: “La grazia perfeziona la natura e l'Amore che vie¬ne dallo Spirito Divino perfeziona tutti gli amori umani, li rende stabili e pazienti.”
Il suo insegnamento è costante: “II Signore sia sempre con te in tutte le tue vie! E' il Salvatore che salva, è il Risorto che fa risorgere... Il nostro tipo di vita, di esseri che vivono nel tempo, fra il celeste e il terrestre, accumula continuamente elementi di morte dai quali si deve risorgere, e, nei sacramenti, elementi di vita dal Risorto. Come sai, nella S. Scrittura vita significa sempre vita divina, cioè partecipazione alla vita dell’unico vivente in senso proprio.”
Leletta era dotata di una grazia sbarazzina che la rendeva simpatica e vicinissima a tutti. Ecco, come esempio, quello che scrive a proposito del dono di un barattolo di marmellata: “Quanto alla marmellata di ramassin [piccole, dolcissime susine] fatta pregando, come farò a mangiarla?? È quasi come bere a garganella H2O benedetta!”
Un amico di gioventù ha potuto scrivere che alla fine della vita il linguaggio di Leletta era “scanzonato come di una fanciulla, assoluto come di una badessa,” e ha aggiunto: “È questo che mi ha molto, molto fatto innamorare della sua anima: ho capito che era diventata trasparente e che in lei parlava lo Spirito.”
In lei trovavano consiglio anche sacerdoti e religiosi. A un'allieva che stava per entrare nella vita religiosa scrive, dandole del lei come soleva fare con gli studenti: “C'era Qualcuno direttamente al lavoro nella sua anima ed anche chi le voleva bene non poteva far niente per lei. Non doveva far niente per lei, come non si deve far niente per coloro che combattono nell'arena per conquistare la palma del martirio: la nostra vita infatti non è che un martirio visto al rallentatore.
Forse l'abbiamo già detto altre volte e abbiamo anche detto quello che lei sa benissimo: diligentibus Deum omnia cooperantur in bonum - che si traduce: per quelli che amano Dio tutto fa brodo!”
La chiusa scherzosa non cancella la serietà dell'insegnamento. Il riferimento è Rom. 8,28: “tutto concorre al bene di coloro che amano Dio;” il martire è, come si sa, il testimone.
Qualche anno dopo, in una situazione mutata, le scrive: “Tutte le strade conducono davvero al Fine, nel quale avviene ogni incontro profondo, e questo fine è la contemplazione della Santa e Individua Trinità: Tu charitas - Tu puritas - Tu pax et immortalitas - o beata Trinitas” (Tu carità, Tu purezza, Tu pace e immortalità, o beata Trinità) Leletta. che era stata guida spirituale per questa monaca, a un punto le scrive: “Benché tu li possa consigliare bene, c'è un momento della vita spirituale nella quale solo i santi ci capiscono,” suggerendole di dialogare con i grandi mistici.
Per un'altra persona, in una circostanza particolarmente difficile, che Leletta definisce “di per sé fatta per fracassare i nervi,” il consiglio è duplice: in primo luogo usare “piccoli accorgimenti di prudenza.” e spiega che “la prudenza è quella virtù che usa il buon senso nel trovare i mezzi adatti per raggiungere il fine di una vita serena orientata a Dio (salvando nervi e fisico quando sì può. Il Signore ci vuole nella pace).”
In secondo luogo suggerisce una sorta di capovolgimento di ogni prospettiva umana che orienti alla più grande carità: “Il rovesciamento interiore per giungere alla Carità eroica bisogna invocarlo con grande umiltà da Gesù 'dolce e umile di cuore” e da Maria Misericordiosa. Consiste nell’amare molto quelli che ci danno ai nervi, riconoscendo i loro difetti (non si può diventare ipocriti come loro), ma amandoli malgrado i loro difetti, con insistente preghiera (bisogna lottare nella preghiera fin che ci si accorge che li si ama davvero).
Inoltre si dovrebbe accusare se stessi in tutti i casi e il proprio 'amor proprio' che ci rende troppo sensibili alle offese (per esempio, se ci offendono, affidare l'offensore al Signore e dirsi: 'come sono poco santa! Se lo fossi non me la prenderei così.'). L'amareggiarsi deriva spesso dalla salute scossa, ma se uno si umilia, il Nemico non può mettere pepe sulla piaga e se ne va!”
Leletta aveva rinunciato ai beni della famiglia e alla condizione del suo ceto, ma non aveva rinunciato agli affetti della sua famiglia per la quale ebbe sempre sentimenti tenerissimi. Aveva salutato con immensa gioia il matrimonio di suo fratello Aimaro con Consolala Solaroli di Briona e poi la nascita dei nipoti Saverio e Hilario.
Era presente con sollecitudine e discrezione in ogni circostanza della loro vita, li avvolgeva tutti del suo affetto materno, ed era attenta a trasmettere i grandi e piccoli tesori della lunga tradizione familiare e a volgere il loro sguardo verso l'eterno. Anche con loro era spiritosa e gaia.
Valga come esempio qualche battuta tratta da un libretto preparato per il compleanno della cognata Consolata nel 1978, dove sono scritte divertenti frasi rimate, e che comincia così:
“Piccoli 'desiderata '
di un’antenata
per Consolata”
(prima d’inscemire o di morire)
I desiderata sono molti e fra tutti è significativo il pro memoria per il fratello:
La Società Maroletta
non è giubilata.
Comprende Saverio
Hilario e Consolata.
Einfine sull'ultima pagina:
Ultimi desiderata
detti con lieto riso:
ritrovarci, o Consolata,
tutti insieme in Paradiso!

Due monasteri
La vita di Leletta negli anni del Priorato è povera di avvenimenti esteriori, tutta raccolta nell'interiorità e spesa a soccorrere e a consolare. Due grandi realizzazioni tuttavia la vedono cooperare attivamente: la fondazione del Monastero carmelitano Mater Misericordiae di Quart e quella del Monastero cistercense Dominus Tecum diPra 'd Mill.
Il canonico Commod aveva desiderato la fondazione di un monastero contemplativo in Valle d'Aosta e aveva destinato a questo scopo tutto ciò che aveva. Alcuni sacerdoti raccolsero questo voto in pieno accordo col vescovo di allora, mons. Ovidio Lari, e s'impegnarono nella realizzazione. Don Maquignaz, i canonici Camillo e Giulio Rosset, se ne fecero carico concretamente. Venne decisa la fondazione di un Monastero di Carmelitane Scalze. Leletta portava in cuore da tempo il desiderio che fossero chiamate le Carmelitane Scalze di Valmadonna (Alessandria) fra le quali c'erano alcune sue grandi amiche di gioventù e di ideali. Con una di loro iniziò una vera e propria “cospirazione” - così chiamata scherzosamente e fatta soprattutto di intensa preghiera - perché questo avvenisse. Vennero chiamate proprio loro, le Carmelitane di Valmadonna. e la sua gioia fu grande. Il 7 settembre 1986 Papa Giovanni Paolo II, in vacanza in Valle d’Aosta, benedisse la prima pietra e l'anno seguente si diede inizio ai lavori. Il terreno, un bel pianoro soleggiato sopra il Villair di Quart, era stato donato dai fratelli Rosset, il progetto venne eseguito gratuitamente dagli architetti Aimaro Oreglia d'Isola, fratello di Leletta, e Roberto Gabelli, e si diede avvio alla raccolta dei fondi per la costruzione. Don Maquignaz e i canonici Rosset erano ancora e sempre sulla breccia con grande dispendio di fatica per sbrogliare situazioni complicate e difficili, per risolvere complicazioni burocratiche. Leletta era loro accanto, pregando e soffrendo con questi sacerdoti, che le erano carissimi, per le difficoltà che si rinnovavano continuamente. Inviò un numero infinito di lettere e dépliants per informare, per spiegare il senso di questa fondazione e per chiedere contributi.
Il 16 luglio 1989, solennità della Regina del Carmelo, il Papa benedisse il Monastero ormai terminato che venne inaugurato il 1° ottobre successivo. Le forme austere e bellissime, il silenzio dei monti circostanti, custodiscono questa comunità che, in povertà e in preghiera, canta le lodi di Dio e intercede per gli uomini. E’ interessante ripercorrere alcune premesse a questa fondazione, situate tutte nell'ordine spirituale. Fin dall'aprile 1978 Leletta aveva confidato a suor Teresa di Gesù, amica cui era unitissima spiritualmente fin dalla giovinezza e carmelitana al Monastero di Valmadonna, il desiderio ancora non realizzato del canonico Commod di “una comunità contemplativa in Valle,” osservando che quelli “erano desideri PURI, di persona unita al Signore.” Entrambe avevano serbato questo desiderio nutrendolo di pre¬ghiera e indipendentemente l'una dall'altra avevano avuto l'intuizione che la fondazione dovesse essere dedicata alla Madre di Misericordia. Tale fu infatti la dedicazione del Carmelo di Quart: Mater Misericordiae: “La Misericordia è, nella Sacra Scrittura, l’amore che scende gratuitamente su quanti non lo meriterebbero.
Maria è stata la prima a usufruire della salvezza, è colei che ha ottenuto la più perfetta misericordia. Proprio per questo a sua volta sarà misericordiosissima. Ben venga dunque nella Valle d'Aosta la misericordia di Dio attraverso Maria e le sue figlie oranti,” così è scritto in un dépliant che intendeva far conoscere il significato di questa nuova fondazione.
Le Carmelitane presero felicemente dimora in Valle nell'ottobre 1989 e Leletta, che le amava dal fondo dell'anima, fece il sacrificio di non andarle mai a incontrare.
Un altro sogno aveva, quello di veder sorgere un monastero a Pra 'd Mill, una proprietà di famiglia sulle montagne sopra Bagnolo dove lei e suo fratello Aimaro erano saliti tante volte da ragazzi, con i familiari e con gli amici, e che durante la guerra era stata frequentata anche dai partigiani. “Senti che pace, questo sarebbe il posto ideale per un convento,” aveva detto molti anni prima a Ninuccia Bruno, tornando da una gita per cogliere lamponi. Nel 1979 scrisse a suor Teresa di Gesù di quella “cara casa tra le montagne, tanto amata e ora diroccata, bel simbolo delle rovine dell'anima che lo Spirito può trasformare in suo Tempio Santo,” e poiché un benedettino aveva preso contatto con lei, esultava per “questo desiderio esaudito” e aggiungeva: “Essendoci a Pra 'd Mill una Cappella (saccheggiata) dell'Annunciazione, ieri ho osato proporre per scritto [...] il nome del Monastero Dominus tecum.” E chiosava: “Petulanza da portinaia!”
Ma non se ne fece nulla, e il tempo passava mentre ogni opportunità cadeva. Un incendio aveva intanto devastato la valle, i boschi e le case rustiche, lasciando però intatta la cappella.
Nel monastero cistercense di Saint-Honorat sull'isola di Lérins, nel mare davanti a Cannes, c'era abbondanza di vocazioni, e fu così che in occasione di una visita di padre Cesare Falletti di Villafalletto, allora maestro dei novizi in quell’abbazia, Leletta lo invitò ad andare a vedere il luogo per farvi eventualmente una nuova fondazione. Andarono.
Nel buio della notte, mentre sulla montagna infuriava un violento temporale, lui ed alcuni amici che lo accompagnavano scorsero, nell'accendersi improvviso di una luce di lampi, il breve pianoro e le casette in pietra di Pra ‘d Mill. Poco dopo la pioggia cessò, ci fu uno strappo fra le nubi e in cielo si videro le stelle. Erano con lui i coniugi Pugnani e l'architetto Maurizio Momo e sua moglie. Prima di partire da Torino, padre Cesare aveva chiesto a uno dei loro bambini, Alberto, di dire un numero che era risultato spropositatamente alto per esser stato suggerito da un piccolo. Dentro la cappella, nell'oscurità illuminata solo da una minuscola torcia elettrica, aprirono la Bibbia alla pagina indicata da quel numero e, profondamente scossi, lesserò: “Vidi un nuovo cielo e una nuova terra, perché il cielo e la terra di prima erano scomparsi e il mare non c'era più. Vidi anche la città santa, la nuova Gerusalemme, scendere dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo. Udii allora una voce potente che usciva dal trono: 'Ecco la dimora di Dio con gli uomini! Egli dimorerà tra di loro, ed essi saranno suo popolo ed egli sarà Dio con loro...” Era Apocalisse 21,1-6, ed era il primo annuncio, il germoglio dal quale, nella preghiera, nell'attesa, nell'impegno di un piccolo nucleo di monaci e di amici sarebbe nato il monastero cistercense Dominus Tecum. Usciti dalla cappella, alla luce fioca della pila, visitarono il palazzotto dei Malingri, il Palas,che sarebbe stata la prima abitazione dei monaci prima della costruzione del monastero.
Leletta e la famiglia di suo fratello Aimaro donarono l'antica amata terra di Pra ‘d Mill. L'architetto Momo progettò il monastero e la chiesa, di una severa, delicata e spirituale bellezza, che nelle li¬nee richiamano lo stile delle case dei montanari, le meire rocciose sparse sulla montagna. Le diverse luci del giorno e delle stagioni e quelle della preghiera notturna rivestono la pietra di rinnovate trasparenze e svelano la nascosta armonia di un luogo che fa memoria e rende presente agli uomini la dimensione escatologica di ogni vita e di tutta la storia.
I monaci vi si stabilirono definitivamente il 5 luglio 1995; erano in due: padre Cesare e fratel Paolo. Leletta che tanto aveva sperato, pregato e si era adoperata anche per questo monastero, già viveva in Dio e il suo corpo riposava nell'austera tomba di famiglia in pietra di Bagnolo nel piccolo cimitero del Villar, ai piedi della montagna. Ma prima di morire aveva potuto vedere la foto del quadro restaurato dell'Annunciazione che è nella cappella, cui teneva tantissimo.
Una scritta che si trova a Pra ‘d Mill racconta il senso di quella fondazione monastica. Riportati i versetti dell'Apocalisse che abbiamo citato, vi si legge: “Il Monastero Dominus Tecum è nato dalla lettura di questo passo dell’Apocalisse per essere una dimora di Dio con gli uomini. Luogo d'incontro, nascosto e silenzioso, fra Dio e l'uomo, come lo è il seno della Vergine Maria dopo l'Annunciazione: Il Signore è con te.Luogo del canto nuziale fra Cristo e la Chiesa sua sposa, eco del Magnificat e dell'Alleluia delle schiere dei Beati che cantano la vittoria dell'Agnello.”

Il tramonto rosso
Nella settimana santa del 1988 una ferita apparsa sul seno sinistro rivelò che Leletta aveva un cancro. Cominciava il lungo “tramonto rosso,” come lei stessa lo chiamò: rosso perché colmo di amore e orientato a traghettare all'Amore.
La sua preghiera fu: “Per la tua bontà, Padre, dammi la pienezza della Fede perché muoia di Amore. Donaci Signore la pace della sera, pacem quietis, pacem Sabbati, Sabbati sine vespere. Amen (la pace del riposo, la pace del Sabato, del Sabato senza vespro).” Aggiunse: “II tramonto sia consacrato a Maria, Aurora del Nuovo Giorno”
Era lieta perché l'incontro con il Signore che aveva desiderato fin da bambina era vicino, ma lo comunicò a pochi e solo con il tempo. Debolezza e sofferenze si aggiunsero a quelle che già gravavano su di lei e tutto continuò come prima: i colloqui con la gente, l'occuparsi di tante persone, la corrispondenza, la preghiera, la preghiera notturna che anticipò di oltre un'ora e che cessò soltanto qualche mese prima della morte, dopo che un ladro, proprio quando lei tornava dalla chiesa avvolta nel suo mantello, l’assalì minacciandola di morte e tenendola stretta mentre scassinava. Lei, superata la sorpresa, aveva preso ad ammonirlo, e il giorno seguente il maresciallo dei Carabinieri che l’interrogava era divertito e stupito che fosse interessata all'anima del ladro, ma non sapesse descrivere il suo cappotto.
Dai primi mesi del 1993 non poteva più prendere cibo. Si cibava di neve che Celestina, la buona cuoca del Priorato, andava a cercare tra gli anfratti delle rocce, in montagna, insieme a Giovanni, e che conservava nel congelatore.
La chiamavano “la neve del Paradiso” e dava qualche sollievo alla sua grande arsura e ai dolori che la stremavano. Alcune amiche si alternarono accanto a lei. Con indicibile fatica continuava ad accogliere chi insisteva per vederla o per salutarla, interrompendo il silenzio nel quale era immersa. Pinin Germano, che in qualche modo esprimeva accanto a lei la presenza tutta spirituale di sua sorella, suor Teresa di Gesù del Monastero di Quart (veramente sorella dell'anima per Leletta!), ricorda: “Talvolta poi, dopo i colloqui, era tutta scossa dal vomito, tanto le erano costati q


Autore:
Nora Possenti Chiglia


Fonte:
www.amicidomenicani.it

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Aggiunto/modificato il 2007-08-14

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