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Mons. Michael Aidan Courtney Nunzio Apostolico

Testimoni

Nenagh, Irlanda, 5 febbraio 1945 - Bujumbura, Burundi, 29 dicembre 2003

Nominato nel 2000 da Giovanni Paolo II rappresentante pontificio nel Paese africano devastato dalla guerra civile, monsignor Courtney ebbe un ruolo di primo piano nel raggiungimento dell’accordo del novembre 2003 tra il Governo burundese e i ribelli hutu. Destinato alla nunziatura apostolica di Cuba, il presule irlandese aveva chiesto di rimanere a Bujumbura per un altro periodo, ritenendo imminente la possibilità di una pace definitiva. Purtroppo mentre viaggiava non distante dalla capitale del Burundi, la sua auto fu raggiunta da diversi spari. Unico fra gli occupanti del mezzo a venire colpito, l’arcivescovo spirò in ospedale: era il 29 dicembre 2003 e aveva solo 58 anni.



Michael Courtney, nunzio apostolico a Bujumbura, era arrivato tre anni fa con un aereo preso a fucilate all’atterraggio. Dopo tre anni di instancabile lavoro, è partito per l’Irlanda dentro una bara e con tre proiettili in corpo. Ci si può domandare in che misura una persona come Michael abbia contribuito a forgiarsi il suo destino e in che misura ne è stata una vittima, una delle tante di questa guerra che in Burundi dura da dieci anni e che ha già portato alla tomba più di 200mila persone fra cui vescovi, preti, missionari e tanta gente comune che ha avuto solo il torto di trovarsi al posto sbagliato nel momento sbagliato.
Courtney era nato a Nenagh, in Irlanda, il 5 febbraio 1945. Del suo paese si portava dietro il senso della franchezza e l’umorismo. Non aveva paura di mostrare i suoi sentimenti. Uomo di grande onestà che non poteva rimanere indifferente di fronte alla sofferenza altrui e all’ingiustizia su persone innocenti. Non si rifiutava di aiutare, quando gli si presentava una necessità o una causa da difendere. Lui, poi, presentava il caso a coloro che contano nella politica e nella chiesa, creando a volte qualche imbarazzo.
Era venuto rappresentante della Santa Sede, quindi come diplomatico, ma si è trovato ad agire più sul versante della politica che della diplomazia e della pastorale. Forse, nel suo impegno per risolvere il conflitto che dilania il Burundi da parecchi anni, egli si è coinvolto anche per una sua particolare sensibilità ed esperienza precedente. Prima di venire in Burundi, era stato incaricato d’affari per la Santa Sede a Cuba e poi al Parlamento di Strasburgo. Due posti dove la politica è pane quotidiano. Prima della sua morte era già stato trasferito di nuovo a Cuba.
Il problema della guerra in Burundi e la ricerca della pace erano per lui una sfida alla quale si era dedicato interamente, senza pregiudizi, dicendo a tutti quello che pensava e mettendo ciascuno di fronte alle proprie responsabilità nel caso di un fallimento nel processo di pace. Trattava tutti e ciascuno come se la pace dipendesse da lui. Non avendo pregiudizi, si sentiva libero di dire e di agire, ma forse anche di non preoccuparsi dei condizionamenti in cui il suo interlocutore invece si trovava. Non so quando si rendesse conto della complessità della situazione. Comunque voleva rendere le cose semplici e diceva che la pace era possibile, se si agiva a partire da certi valori. Bastava la buona volontà. Per lui, in un paese in cui ci sono dei tabù a livello socio-politico, non esistevano tabù. C’era solo un popolo che soffriva e una pace da ricercare ad ogni costo. Tutto il resto era secondario. Bisognava agire e fare qualcosa per far uscire il Burundi da un conflitto che durava da troppo tempo.
In un paese dove si comincia un discorso con dei “distinguo” e nei quali si parla girando attorno all’argomento e a volte dicendo della parole che nascondono più che rivelare la verità, lui amava il discorso diretto. I suoi interlocutori burundesi a volte restavano un po’ disorientati di fronte alla sua franchezza, e tacevano. Il discorso in Burundi è un gioco e un artifizio con il quale si cerca di dire e non dire allo stesso tempo. Per Michael, tali artifizi erano una perdita di tempo. Bisognava agire e in fretta di fronte alla sofferenza.
Ad alcune persone Michael appariva come un marziano sbarcato su un pianeta sconosciuto che non si rendeva conto della realtà e della sua “complicazione”, come ebbe a dire il Nunzio apostolico in Uganda che ha presieduto i funerali di Michael. È forse questa diversità di stile che può aver ferito qualcuno fino a provocare una reazione tanto feroce da ucciderlo? O forse la sua uccisione è un messaggio duro per impaurire il Burundi e mettere a tacere chi si permettesse di toccare certi tasti sensibili o cambiare le regole della società burundese, che risalgono alla notte dei tempi? Non si sa, ma tutto è possibile, quando si ritiene che l’altro ha superato i limiti che gli erano stati affidati.
Eppure un uomo di chiesa non può restare estraneo ad un conflitto, in cui la gente soffre. Doveva farlo. Ma in che modo? Ora che è caduto vittima della ferocia umana e per la causa della giustizia e della pace, diciamo che è stato un grande. E al martire che è caduto per la difesa dei valori in cui credeva non si può che rendere omaggio. Ha gridato forte ciò quello che nessuno aveva il coraggio di dire per paura, per convenzione o per rispetto.
La sua opera è stata di vicinanza e condivisione con tutta la chiesa del Burundi: con i vescovi responsabili del gregge e con le singole comunità cristiane, presso le quali si rendeva presente nelle varie circostanze. Amava essere invitato in occasione di feste, ma anche di avvenimenti semplici di vita quotidiana.
Nessun diplomatico in Burundi si è caricato come lui, con passione, delle vicende di questo paese. Lui, senza scorta militare, quella con la quale girano politici e vescovi, era presente fino agli estremi confini del paese e in luoghi caldi come a Kayongozi, in provincia di Ruyigi, per inaugurare un dispensario della Lva e a Minago, sul lago Tanganica, a un funerale nei giorni in cui erano in corso dei combattimenti fra truppe governative e ribelli.
In questi anni, il Burundi ha avuto dei nunzi molto diversi, talvolta anche contrastanti. C’era chi si limitava a sbrigare le faccende diplomatiche, stando dentro la Nunziatura o partecipando agli incontri diplomatici; e c’era chi era più pastore e dunque più incline a occuparsi delle cose di chiesa e dei suoi pastori. Michael era pastore, ma di quelli portati a sporcarsi le mani nelle vicende della gente, della società e della politica con tutti i suoi valori. Era la sua passione ed è per questo che ha dato la vita.
Nessuno deve pensare che sia “colpevole” di essersi implicato nel problema politico del Burundi, ma è innegabile che il suo impegno comportasse grandi rischi, almeno qui. In certi momenti, in certi contesti e per certe persone, non ci sono che violenza e privilegi da mettere sul piatto. La violenza da parte di chi crede che non c’è modo di affermare la giustizia, se non passando attraverso le armi e le prerogative di gruppi di potere occulto e parallelo. Questi non accettano o non si sono ancora accorti che anche il mondo burundese sta cambiando (ed è già cambiato); quindi, oggi, non esiste altra soluzione che il dialogo e la giustizia per arrivare a una pace vera e duratura in questo paese.


Autore:
Luigi Arnoldi


Fonte:
www.saveriani.it

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Aggiunto/modificato il 2024-01-25

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